Il Commissario Tecnico

Gli piaceva ripetere parole come “gruppo”, “squadra”, “intesa”, “unità”.
Per spiegare il concetto ai corridori delle sue Nazionali aveva inventato un’immagine: “La macchia azzurra”.

Per Franco Ballerini il fatto di correre tutti insieme, tutti per uno, era una filosofia. Aveva imparato presto sulla sua pelle quali fossero le insidie del ruolo di C.T. e gli intrighi che si nascondono dietro (e dentro) un Mondiale. L’aveva provato a Lisbona 2001, appena sei mesi dopo avere detto addio al ciclismo pedalato nel velodromo di Roubaix. Era l’ultimo giro: Simoni lanciato da solo in fuga e Lanfranchi dietro a inseguirlo, magari per distrazione, molto più probabilmente per interesse.

Finì con Freire vincitore allo sprint e Bettini secondo a mangiarsi le mani, perché nel frattempo gli altri azzurri (in particolare Bartoli) avevano pensato bene di fare la loro volata, anziché tirarla al Grillo. Da quella sconfitta, da quella prima delusione, Ballerini imparò a non scottarsi più. L’anno seguente, per il Mondiale di Zolder, costruì tutto il gruppo intorno al velocista più forte: Mario Cipollini. L’Italia corse da Squadra, e portò Re Leone al trionfo in volata.

Da allora nacque uno spirito nuovo, lo spirito di Zolder.
Simile a un patto d’onore, basato sulla parola e sulla fedeltà alla maglia azzurra. Con Ballerini in un certo senso si entrava a fare parte di una élite. Dove contavano gli uomini, prima che gli atleti. Dove valeva l’onestà e non era ammesso il tradimento. Dove il leader (quasi sempre unico) e i gregari avevano la stessa considerazione. Ballerini credeva nella parola. Nella sua capacità di persuasione. Nella motivazione che riusciva a infondere.

Così riusciva a mettere d’accordo tutti e a farli convivere, al di là del carattere, delle antipatie e delle rivalità. Così, in soli otto anni, è riuscito a vincere più di chiunque altro, a parte Martini: 4 Mondiali (Cipollini 2002, Bettini 2006-2007, Ballan 2008) e un’Olimpiade (Atene 2004 con Bettini). Senza contare gli argenti, i bronzi e le altre (pochissime) occasioni mancate.

Era aperto al dialogo, ma se aveva un’idea andava fino in fondo: poteva dissuaderlo soltanto Martini, padre e consigliere. Come a Zolder, quando Petacchi avrebbe dovuto essere il penultimo uomo del treno di Cipollini e tutti gli contestavano il rischio del fattore F, cioè l’antipatia tra Ferretti (team manager di Petacchi) e Cipollini.

“In realtà eravamo d’accordo da tempo - ricorda Petacchi -. E con Ferron parlai chiaro: ‘Se vado a fare questo Mondiale, devo sposare la causa’. All’ultimo giro, Franco per radio mi chiese come stavo. Risposi che ero un po’ legnoso. Ma lui mi incitò: ‘Dai, tira fuori tutto’. Bettini cadde con Freire e io in volata mi ritrovai a dover fare il doppio, per portare Lombardi ai 400 metri. Però non mollai”.

Ballerini restituì il credito a Petacchi al Mondiale di Madrid 2005, facendolo capitano unico nonostante il pupillo Bettini andasse a mille. “Il piano era puntare su Petacchi. E anche Bettini accettò - racconta Giovanni Lombardi -. Ricordo che discutemmo sull’ultimo uomo: Franco voleva a tutti costi Velo, l’apripista del Peta. Così si fece: purtroppo a Petacchi mancarono le gambe e lo disse a mezzo giro dalla fine”.

L’anno dopo, andò a Salisburgo addirittura con cinque punte: Bettini, Di Luca, Pozzato, Rebellin e Paolini, pur essendo il livornese l’uomo di riferimento. “Quando eravamo alla fine - ricorda Pozzato - chiamò alla radio e ci spronò: ‘Ragazzi, bisogna che questa corsa la facciamo cazzuta’”.

Bettini conquistò il suo primo Mondiale e il ciclo vincente si riaprì. “Aveva la dote di fare andare d’accordo i capitani (racconta Luca Paolini, il fedelissimo di Bettini). Metteva intorno a un tavolo Bettini, Di Luca, Pozzato, e li faceva parlare. Prima della gara bisognava dirsi tutto. Poi, quando si era detto tutto, dopo le riunioni, si tratteneva qualche minuto in più con me e con Paolo, per domandare come la vedevamo”.

In quella vigilia di Salisburgo, Paolini ricevette un avviso di garanzia per un’inchiesta doping. Il Ballero non lo sostituì. “Sarebbe stata la cosa più facile, per tutelare l’immagine della Nazionale. Invece mi prese da parte e disse: ‘Se non hai niente da nascondere mi fi do di te, andiamo avanti’”. Faceva sentire i gregari importanti come capitani. “Mi ha sempre detto che il Mondiale lo vince chi tira dal primo chilometro come chi lo fa nell’ultimo”, ricorda Matteo Tosatto. “All’Olimpiade di Atene stavo male, non andavo (spiega Pozzato).

All’ultimo giro ero a tutta e mi accostai all’ammiraglia. Lui era arrabbiato, ma mi incitò: ‘Porta l’ultima borraccia, che è importante’”. È stato anche il C.T. delle scelte diffi cili, a volte impopolari. A Verona 2004 lasciò fuori Simoni e si prese le colpe dell’esclusione di Rebellin, l’idolo di casa, che in realtà da agosto aveva deciso di chiedere il passaporto per correre con l’Argentina, temendo un altro “no” dopo quello dei Giochi di Atene.

Il giorno della gara, i tifosi veneti si vendicarono tirando uova sull’ammiraglia di Ballerini.
A Stoccarda 2007 non portò il suo figlioccio Bennati: “Dobbiamo fare una corsa aggressiva (confidò). Io non sacrifico il mio velocista”.

Per sostituire Di Luca (coinvolto in un’inchiesta doping) richiamò da casa il vecchio Tosatto, preferendolo (tra le polemiche) ai giovani Visconti e Nibali, che erano le riserve. “Mi telefonò giovedì notte (ricorda Tosatto). Venerdì, quando arrivai a Stoccarda, gli altri stavano cenando e lui invece mi aspettava nella hall dell’albergo. ‘Qui siamo tutti incazzati’, mi disse.

‘Domenica ho bisogno di un leone’” Era umile e carismatico.

Durante l’anno chiamava a turno i corridori d’interesse per domandare come stessero e come avessero visto i colleghi.
Annotava tutto nella sua agenda, dove c’erano di solito una trentina di nomi, che poi via via si riducevano.
Nella settimana del Mondiale era bravissimo a tenere cucito il gruppo, studiando le relazioni fra i corridori e facendo da mediatore. Così anche nelle vigilie più drammatiche, come quelle di Stoccarda 2007, quando Bettini fu bersagliato dai sospetti, o di Varese 2008, quando lo stesso Bettini annunciò l’addio il giorno prima di correre l’ultimo Mondiale. Era un confidente, uno psicologo, uno che amava i corridori a lui più vicini e ci diventava amico. Perciò loro hanno continuato a volergli bene, anche dopo certe esclusioni dure da digerire.

“Credo che conoscesse i segreti di tutti”, confida Lombardi.
“Ti faceva capire le sue ragioni, ti spiegava il perché, si confrontava.
Soffriva a lasciarti a casa e te lo diceva. Perciò non riuscivi ad arrabbiarti con lui”, aggiunge Tosatto. “Dopo il Mondiale di Zolder andai a casa sua (racconta Luca Scinto).

Gli chiesi: ‘Franco, che cosa devo fare? Smetto o continuo un anno?’. Decidemmo che mi sarei ritirato e l’annuncio lo scrivemmo insieme alla sua scrivania”.

di Luigi Perna (la Gazzetta dello Sport)